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Fontana Pessinea, Viù, Valli di Lanzo (TO)
http://www.vallediviu.it/fontana-e-benal/
(segue dalla prima parte)
E qui mi ci sono riconosciuto alla grande, in questo surfare in modo solo in apparenza superficiale fra diverse passioni, senza approfondirne a dismisura una sola – che anzi come atteggiamento mi fa impressione e mi suscita anche una certa diffidenza, quando lo vedo in altre persone – ma vivendo il più appieno possibile l’apertura mentale e la diversificazione (sensoriale, emotiva, conoscitiva, e chi più ne ha più ne metta) di questo mio agire.
Ah, che bello! Come mi sono sentito un vero mutante, a leggere queste pagine! Tantopiù, scrive ancora Baricco, che rimane comunque in questi nuovi barbari un senso di nostalgia implicito e istintivo per ciò che un tempo era sacro, monolitico, perché la mutazione è sempre un fatto doloroso e per propria definizione incompleto. Fantastico! C’è pure questo! Sì sì, mi riconosco eccome!
Ma se alla prima lettura era questo ciò che più mi aveva colpito, oltre al piacere in sé di leggere tante squisite argomentazioni in puro stile baricchiano, la seconda mi ha rivelato un’altra verità. E’ quasi alla fine del libro. Perché io sarò anche un mutante, ma di una specie particolare. Affondo i piedi nella tradizione, e ho la testa persa fra le nuvole, anzi, che dico nuvole, a surfare fra le stelle. In un certo senso, sono un classicista per educazione ricevuta, che strada facendo ha scoperto in sé un romantico in divenire (°). Un mutante ancora in formazione, chissà fino a quando e chissà fino a dove.
E così, oltre al riconoscermi appieno in questo nuovo modo barbaro di fruire i libri, e che tipo di libri, non solo leggendo ma anche scrivendo, di cercare e di costruire dei luoghi passanti per altre esperienze passate e future o contingenti (e infatti io i grandi classici li compro, ma non li leggo; la nostalgia è anche in questo; certo, amo Hemingway, ma lo si può forse considerare un classico, con quel suo stile così personalissimo e moderno, quasi giornalistico? Ma no, dai che era un mutante anche lui!), ecco che trovo anche una fotografia ancora più dettagliata e chiara che mi ritrae.
A parte concordare del tutto con la sua affermazione che il trovarsi in mezzo alla mutazione, fra noto e ancora ignoto – e non a caso iniziando questo discorso tempo fa l’ho messa in epigrafe (°°) – sia un luogo magnifico, proprio perché è qui e ora che le cose stanno accadendo, in cui ci possiamo rendere conto che ci sono cambiamenti in atto, e osservarli, e provare a prevedere che cosa ne verrà fuori…
Ma oltre a questo, dicevo, ho trovato qualcosa che mi riguarda direttamente. O almeno così leggo e sento. Qui mi permetto di citare non a memoria ma ricopiando direttamente il testo baricchiano:
Non c’è mutazione che non sia governabile. Abbandonare il paradigma dello scontro di civiltà e accettare l’idea di una mutazione in atto non significa che si debba prendere quel che accade così com’è, senza lasciarci l’orma del nostro passo. Quel che diventeremo continua a esser figlio di ciò che vorremo diventare. Così diventa importante la cura quotidiana, l’attenzione, il vigilare. Tanto inutile e grottesco è il ristare impettito di tante muraglie avvitate su un confine che non esiste, quanto utile sarebbe piuttosto un intelligente navigare nella corrente, capace ancora di rotta, e di sapienza marinara. Non è il caso di andare giù come sacchi di patate. Navigare, sarebbe il compito. Detto in termini elementari, credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell’incertezza di un viaggio oscuro. I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo ancora sempre pronunciare, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. E’ un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente mettere in salvo ciò che ci è caro. E’ un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo.
E ce ne sarebbe già abbastanza, non credi anche tu Dave? E’ già tutto qui. Perché scrivo.
Eppure Baricco, in conclusione, tira ancora fuori una chicca. Citando Cormac McCarthy, da Non è un paese per vecchi. Ecco cosa dice:
Quello è un libro davvero senza speranza, sembra la resa incondizionata a una mutazione rovinosa, nessuna speranza, nessuna via d’uscita. Però a un certo punto lo sceriffo passa vicino a una strana cosa, una specie di abbeveratoio scavato nella pietra dura a colpi di scalpello. E’ proprio nell’ultima pagina. Vede l’abbeveratoio e si ferma. E lo guarda. Una cosa lunga quasi due metri, e larga mezzo, e profonda altrettanto. Nella pietra si vedono ancora i segni dello scalpello. Sarà stato lì da cento, duecento anni, dice lo sceriffo. Così, dice, mi è venuto da pensare all’uomo che lo aveva fabbricato. Si era messo lì con una mazza e uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio che sarebbe potuto durare diecimila anni. Ma perché? In che cosa credeva quel tizio? Dovete pensare che lo sceriffo a quel punto è davvero stanco, non crede più in niente, e sta per chiudere la sua stella in un cassetto per sempre. Dovete immaginarvelo così. Mentre si chiede perché diavolo uno dovrebbe mettersi a scavare un abbeveratoio di pietra con l’idea di fare qualcosa che dura diecimila anni. In cosa bisogna credere, per avere idee del genere?
In cosa crediamo per avere ancora questo istinto cieco a mettere al sicuro qualcosa?
McCarthy, lui l’ha scritta così: “Penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopocena, non so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. E’ la cosa che mi piacerebbe più di tutte.
Applausi. Ad entrambi.
E una risposta per me. Scrivo perché è il mio modo di mettere al sicuro il mio mondo, di traghettarlo nel futuro. E per farlo, nel corso del tempo, ho mutato il mio linguaggio, il mio stile, cercando di sfrondarlo di ridondanze retoriche e renderlo più diretto e colloquiale, per avvicinare il mio modo di scrivere a un parlato quotidiano, più semplice e schietto, che non sia però banale. E perché ho una promessa nel cuore, che un giorno racconterò questo mio mondo a qualcuno. Qualcuno di molto importante. Non ho idea di chi potrà essere, forse solo al me stesso che sarò. Non lo so. Ma ce l’ho. Questa promessa, intendo.
Magnifico.
E alla luce di queste considerazioni, ritrovo la pertinenza e l’attualità anche degli estratti dalla prefazione di Ruff. Che interpreto così: chi scrive tende a vivere in una propria realtà alternativa, ed è bene ricordare che la vita reale è un’altra storia; forse meno poetica e letterariamente compiuta, e (salvo eccezioni) non ci sarò dato di deciderne il finale. Ma rimane sempre la speranza di poterne scrivere qualche capitolo. E chissà, magari scoprire che non sia venuta fuori poi così male.
Credo sia per questo che mi ero voluto annotare quel particolare passaggio. Per ricordarmi di tanto in tanto di controllare che i miei piedi tocchino ancora terra. E non dimenticarmi, per quanto ami scrivere, di vivere, anche. E nel caso sia di cattivo umore, usare a me stesso un po’ di sottigliezza.
Bene, mio caro Dave, anche per questa volta credo sia tutto.
Non mi resta che augurarti Buon Natale, e restare in attesa di tue novità.
A presto!
Bill
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(°) Qui mi rifaccio alla distinzione studiata a scuola, fra l’animo classico, per il quale le cose sono immutabili, e quello romantico, che avverte il senso del transeunte (la mia cara prof delle superiori me l’insegnò con queste precise parole, vi assicuro) [NdA]
(°°) Per l’esattezza in questo post [NdA]
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