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Il giovane Vladji’har era consapevole di come lo scorrere tempo sia solo un concetto astratto, e il misurare tale scorrimento una mera – per quanto utile – convenzione.
Era altresì consapevole che espressioni come il rallentare del tempo, o il suo accelerare a seconda dei casi, sono dettate da impressioni soggettive dovute alle circostanze. E lui era addestrato a non lasciarsi distrarre, né condizionare, dalle suggestioni di fuggevoli stati emotivi. Poiché un guerriero saggio non fugge dalle proprie emozioni, ma si fida di esse solo dopo aver raggiunto una perfetta padronanza di sé.
E un guerriero potente sa controllarle a proprio vantaggio e farne strumento di più alta limpidezza interiore, allo scopo di guidare se stesso e chi a lui si affida, senza che siano le proprie emozioni a guidare lui.

Ciononostante, durante quel suo primo viaggio da Yah tu Yoll all’orlo esterno, il giovane Vladji’har comprese che sia la propria consapevolezza che l’addestramento ricevuto, alla prova di certi fatti, potevano rivelarsi insufficienti. In parole povere, scoprì, non senza una punta di inquietudine, di non essere preparato a sostenere novanta giorni di traversata, senza scalo, attraverso il vuoto buio cosmico.
In primo luogo, perché a bordo del mercantile su cui era imbarcato egli non aveva nulla da fare. E non gli era possibile scrollarsi di dosso il tedio mortale che lo assaliva a ogni risveglio, la sensazione che il tempo si fosse arrestato del tutto, mentre i cicli di sonno-veglia si alternavano senza che si potessero scorgere sensibili differenze fra un prima e un dopo, in quella che pareva nient’altro che un’immutabile spirale di noia.

Eppure, quanto a compiere quella traversata, non aveva avuto scelta.
Non appena ricevuto l’ordine di trasferimento, e digerito – o almeno così pensava – l’idea di una destinazione tanto remota e all’apparenza insignificante, aveva potuto constatare che le opzioni di viaggio per i successivi otto mesi commerciali si riducevano a una sola: un vecchio cargo con propulsione al plasma(°). Che sarebbe partito nel giro di tre o quattro giorni, una volta completate tutte le verifiche del caso, per quello che sarebbe stato il suo ultimo volo. Per l’occasione, il mercantile non avrebbe trasportato macchinari, manufatti, materiali da costruzione o derrate alimentari, ma uomini e animali. Coloni, diretti a prendere possesso di un lembo di terra in un uno dei tanti nuovi mondi della frontiera esterna.
All’arrivo, il cargo sarebbe stato smantellato, e tutti i suoi componenti riciclati come pezzi di ricambio per il locale avamposto federale.

Nel momento in cui Vladji’har aveva preso contatto con il capitano della nave, che ne era anche il proprietario, la lista dei passeggeri era già stata chiusa; e l’implicito salvacondotto universale dei Cavalieri di Man non sembrava smuovere più di tanto l’uomo, che nell’aspetto e nei modi assomigliava più a un pirata che a un mercante.

– Tutti qui a bordo hanno un compito preciso, e siamo al completo – gli aveva risposto – non mi occorre altro equipaggio. Tu non serviresti a nulla. Saresti soltanto una bocca in più da sfamare, due polmoni in più a consumare ossigeno prezioso e, a occhio, 150 libbre di carico superfluo.
– Mi avete detto che a bordo avrete due ettari di coltivazioni idroponiche. L’ossigeno non sarà un problema. L’aggiunta di un passeggero al tonnellaggio della nave, che porterà meno di un quinto della sua capacità di carico, sposta il costo di risorse per libbra di un decimale irrilevante…
– Sulla mia nave sono io a decidere cosa sia o meno irrilevante.
– …e posso pagare per il disturbo.
– Perché non l’hai detto subito? Questo cambia le cose! Quanto hai da a offrire?
– Diecimila.
– Naaa! Secondo me puoi fare molto meglio. Io dico non meno di venticinquemila.
– Dodicimila.
– Venti.
– Quindici.
– Andata.
– Bene. Ma spero sappiate che ogni vascello in transito entro i confini dello spazio federale ha l’obbligo di prendere a bordo un cavaliere che ne faccia richiesta, a meno di gravi e fondati motivi, e senza pretendere nulla in cambio.
– Tu non sei un cavaliere, ragazzo. Sei solo un cadetto.
– In questo caso non fa differenza. La regola non cambia.
– E chi lo dice?
– Il patto fra il governo federale e l’Ordine del Drago. In vigore da duecento anni commerciali, anno più anno meno.
– Io non lavoro per il governo, né per l’esercito. Sono un un privato cittadino. E non ho firmato alcun patto.
– Questo non vi esime dal rispettare il mio salvacondotto.

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Il capitano avvicinò il suo naso a un soffio da quello del ragazzo, e lo guardò dritto negli occhi.
– Forse è come dici tu, forse non mi esime. Ma se ora ti prendessi a bordo senza battere ciglio, e senza farti pagare il trasporto come tutti gli altri passeggeri – che per questo, potrebbero aversene a male con me; o magari te – dimmi: cosa esimerebbe te, una volta nello spazio profondo, dall’avere un incidente e non arrivare mai a destinazione?

Vladji’har sostenne lo sguardo del capitano, e gli sorrise. Lo aveva provocato solo per farsi un’idea più precisa di che tipo fosse. Ora sapeva che l’uomo era rozzo e permaloso, ma non cattivo. Un individuo con reali intenzioni disoneste, specie se abituato a metterle in atto, sarebbe stato più attento a tenerle nascoste: non avrebbe mai minacciato un affiliato all’Antico Ordine, a voce alta, sotto obiettivi e microfoni delle olocamere di sicurezza di quella stazione orbitale, che con discrezione fluttuavano ovunque intorno a loro.
– Era solo per puntualizzare. Noi abbiamo già un accordo, giusto?
– Giusto. Quindicimila. Non un credito di meno. Metà subito, l’altra metà all’arrivo.
– Sta bene.
L’uomo e il ragazzo si strinsero l’un l’altro il polso destro, per suggellare quell’accordo verbale fra gentiluomini. Poi Vladji’har mise mano alla scarsella appesa alla cintura, ne estrasse tre piastre da duemila crediti ciascuna e altrettante da cinquecento, e le diede al capitano, che le intascò senza nemmeno verificarle. Stringere in pugno una piastra di credito del Priorato era tale e quale allineare sul tavolo monete di oro zecchino.
– Molto bene, ragazzo, quando vuoi sai essere ragionevole. Ma devo avvisarti: a bordo non ci sono camere criogeniche né supporti vitali a ipersonno.
E novanta giorni nello spazio, senza avere nulla da fare, sono lunghi.
Morirai di noia.
– Correrò il rischio.

Il ragazzo pensava che il capitano avesse esagerato, e continuò a pensarlo fino al momento dell’imbarco. Dopodiché, già dal secondo giorno di navigazione, capì che l’uomo non aveva esagerato affatto.

(continua su Il lungo addio)

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(°) Per la precisione: plasma magnetizzato irraggiato, meglio noto come MagBeam.

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Immagini tratte dal film 2001 Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick, 1968.