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Annuso l’aria. La pioggia è fitta ma sottile, non laverà via le impronte.
Ai lati del sentiero abbondano sassi e rocce affioranti, sarebbe facile camminarci sopra per non lasciare tracce. Un po’ più lento, forse, ma efficace. Non se ne sono preoccupati. Sanno che nessuno li verrebbe mai a cercare in questo tratto di foresta. A parte me, che non sospettano nemmeno che esista. Presto o tardi ripasseranno di qui, e potrò vedere che faccia hanno. Calzano stivali di pelle di daino, proprio come i nativi, ma non vuol dire. Orme giuste, posto sbagliato. Momento sbagliato.

Il tempo passa, la pioggia cade. Un ramo si spezza a ore nove. Era vicino. Troppo. Solo qualche animale. Un uomo avrebbe fatto più rumore, l’avrei sentito da un pezzo. Figuriamoci otto.

Altro tempo, altra pioggia. Sono un tipo paziente.
Infine, arrivano. Un bisbigliare smozzicato precede i loro passi. Non capisco ciò che dicono, ma sono pronto a scommettere che non sia un dialetto locale.
Fra poco ne avrò la certezza. Sono già piuttosto vicini. Se fossi sottovento rispetto a loro li avrei fiutati parecchi minuti fa, ma non importa: ormai ce li ho di fronte. Sfilano sul sentiero a pochi passi da me, tutti e otto in fila, senza guardarsi attorno. Sarebbe inutile. Non mi vedrebbero nemmeno se sapessero dove cercare. Io invece vedo loro, li vedo molto bene. Non so chi siano, ma ora so per certo quello che non sono. Hanno curato i dettagli, si sono impegnati, non dico di no. Ma l’odore è sbagliato. L’odore li tradisce più di ogni altra cosa.

Resto immobile e aspetto che si allontanino. Poi, per sicurezza, aspetto ancora un po’. Non ho fretta. Ormai ho visto ciò che dovevo e so quanto mi basta.
Mi alzo in piedi e mi scuoto di dosso il fango i rami e le foglie, recupero il telo impermeabile e me lo annodo a tracolla. Torno verso il rifugio tenendomi nascosto fra gli alberi, lontano dal sentiero. Sono quasi a metà strada quando fra l’odore di terra bagnata e di foglie marce mi arriva una zaffata inconfondibile. Sangue. La traccia è forte, vicina. La seguo, supero un paio di cespugli e scopro a chi appartiene. Una lupa. Sventrata. A giudicare dalle ferite deve aver lottato con qualcosa di grosso.
La povera bestia è ancora viva, ma non occorre essere un genio per capire a colpo d’occhio che ne avrà per poco. Respira appena, un rantolo affannoso, roco.
Mi inginocchio di fronte a lei. Non sposta nemmeno lo sguardo. Le appoggio una mano sul collo, le rubo il tempo di un’ultima carezza, e faccio scattare la lama. Non c’era altro che potessi fare. La prendo in braccio e cerco un luogo appartato dove farla riposare. Trovo un ammasso di rovi, sollevo i rami più bassi quanto basta a infilarcela sotto e li lascio ricadere al suolo. Lì potrà tornare alla terra, in pace, senza che altri predatori si cibino delle sue carni.

Mi rialzo e mi metto a studiare il terreno in cerca delle sue tracce. Devo riuscire a trovare la tana. Se è vuota, non c’è altro che debba fare. Ma se non lo è, devo accertarmene.

Ci metto un po’. Il terreno lì intorno è molto calpestato, le impronte si mescolano e si confondono, gli odori si sovrappongono. E in più sta per diventare buio. Seguo un paio di piste che non portano a nulla, e proprio quando sto per rimandare l’esplorazione alla luce di un nuovo giorno, individuo quella giusta. Arrivo alla tana. Un buco scavato giù nel terreno fra due rocce appoggiate ai piedi di un declivio. Troppo stretto per potermi calare dentro, troppo profondo per arrivarci con le mani. Tiro fuori un pezzo di carne secca dalla bisaccia, e inizio a tagliarla a piccole strisce. Ne getto un paio dentro la tana, sperando che arrivino abbastanza in basso. Poi ci infilo il braccio, mi allungo più che posso e lascio cadere altre strisce di carne, a intervalli regolari, mentre mi tiro fuori. Altre ancora ne poso all’imboccatura della tana. Mi allontano di qualche passo, mi siedo a gambe incrociate, e aspetto.

Non devo attendere molto. Dal buco fra le rocce spunta un musetto grigio e peloso, poi un altro, e le strisce di carne spariscono.
I lupetti mi fissano con due paia di occhi neri, piccoli e vispi. Non sembrano intimoriti, solo curiosi. Getto altri bocconi a metà strada fra loro e me.
Escono senza indugi della tana e li mangiano. Dietro di loro spuntano un terzo e un quarto cucciolo. Taglio nuove strisce di carne e le dispongo sul terreno, a mezzo braccio dalle mie ginocchia. Il lupetti si avvicinano, tutti e quattro, e continuano a banchettare senza fare complimenti. Tendo verso di loro l’intero pezzo di carne che mi resta. E in un attimo sono tutti quanti lì che mangiano dalla mia mano.
Quando hanno finito li sollevo uno per uno. Tre maschi e una femmina.
Li infilo uno dopo l’altro nel telo impermeabile che porto a tracolla, mi alzo e riprendo il cammino verso il rifugio.

Ho deciso di prendermi cura dei cuccioli nell’istante in cui li ho visti spuntare dalla tana. Avranno tre o quattro settimane al massimo. Già svezzati, abbastanza grandi da nutrirsi di cibi solidi, ma ancora troppo piccoli per cavarsela da soli. Morirebbero di fame o mangiati da qualche altro animale.
Io del resto non avrò nulla da fare per un po’. Al momento la mia missione è completata, e il ragazzo non arriverà prima di tre mesi. Per allora, i lupetti saranno cresciuti a sufficienza. Fino ad allora, ci faremo compagnia.


In apertura: cuccioli di lupo grigio nella foresta, Germania, Baviera, 17 Feb 2013 © Fotofeeling/Westend61/Corbis