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© maurimarino 2013, per gentile concessione. https://www.flickr.com/photos/maurimarino/

Ogni storia ne contiene un’altra, che a sua volta è collegata ad altre storie ancora. E’ così anche per la mia, di storia, che vado ora a raccontarvi.
Solo che (è un po’ imbarazzante, devo ammetterlo) non so bene da che parte iniziare.
Proviamo così.

Salve a tutti.
Mi chiamo John David Sallinger, e sono uno scrittore.

No, così non va. In primo luogo, non pubblico un vero libro da quando non avevo ancora l’età per acquistare alcolici, dunque non posso definirmi uno scrittore. Nonostante la fama e i soldi guadagnati allora, l’una e gli altri svaniti, più o meno da un secolo.

Riproviamoci.

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana...

Ok, stavo scherzando.
Forse potrei cominciare raccontandovi dove vivo. Il luogo da cui sto scrivendo.

Io ne ho girati di posti, sapete. Appena terminato il college avevo parecchi soldi da spendere. Una quantità davvero esagerata. Succede, quando pubblichi un best-seller da sette virgola tre milioni di copie mentre stai ancora frequentando il secondo anno. Il fatto che non l’avessi scritto io, ma mi fossi limitato a curare l’edizione di un manoscritto, lasciatomi da mio nonno Bill prima di morire, il resoconto ironico e graffiante dell’intera sua vita, non ha influito sull’esplosione del mio personale “caso letterario”. La gente tende a fare confusione, specie quando il vero autore è un anziano sconosciuto, già passato ai posteri; mentre il suo fortunato nipote, giovane, belloccio, spiritoso quel tanto che basta da piacere un po’ a tutti, sembra fatto apposta per incarnare il sogno americano. Nonché il sogno di un agente letterario.
Che non ho mai ben capito cosa sia, o cosa fosse, o se mai sia esistito sul serio. Il sogno americano, intendo, non il mio (ormai ex) agente. Ma tant’è.
Il pubblico ci crede, il pubblico vuole crederci. E mi ha riempito di soldi, per il mio solo, e unico merito, di essermi trovato fra le mani un tesoro inedito, e averne fatto buon uso.

Peccato che, dopo quell’esordio così clamoroso, dal successo fulminante, tutti quanti, ma proprio tutti, si aspettassero un seguito. Che fosse perlomeno all’altezza.
Peccato che, come vi ho già detto, di quel libro non fossi io l’autore, ma solo l’editor.
Peccato che, pur non cavandomela malaccio, anzi, pur essendo piuttosto bravo, io non sapessi scrivere nemmeno alla lontana come mio nonno Bill; con quel suo stile unico, istintivo, scarno ma vigoroso, dal fine humor inglese invecchiato in ottimo vino italiano e venato di un retrogusto di malinconia yankee, di genere animista, di genere “tribù dei Grandi Laghi”.
Per un po’, ho tenuto duro. Prima voglio finire il college, dicevo.
Ma il giorno del diploma arrivò in un lampo, e mi ritrovai punto e a capo. Avrei potuto iscrivermi a un master e tirare avanti un altro paio d’anni. Ma, in tutta sincerità, non ne avevo alcuna voglia. Io volevo solo scrivere, e non ero in grado di farlo nella sostanza e nella forma che il mondo intero si aspettava da me.
Così, mi venne in soccorso una brillante idea. Misi qualche indumento in valigia, presi i miei due passaporti, quello statunitense e quello britannico, e saltai sul primo aereo in partenza dal Portland Jetport.
Il primo volo verso uno scalo internazionale era uno United diretto a Newark, New York City. Da lì, presi un altro volo United che mi depositò a Città del Messico. All’epoca non parlavo una sola parola di spagnolo, ma nel mio anno sabbatico in Italia avevo imparato a sufficienza la lingua di Dante, anche se la parlo ancora oggi con un forte accento anglofono, e non ebbi troppa difficoltà a cavarmela con un altro idioma neolatino.

Inizio così, a 23 anni, il mio viaggio intorno al mondo; che, prima di compierne 29, mi avrebbe portato in circa un terzo dei quasi 200 stati ufficialmente riconosciuti su questo pianeta. La scusa che avevo accampato, in famiglia e con i miei referenti letterari, era che sarei andato per qualche mese in un luogo noto a me soltanto, a cercare ispirazione e soggetti per il mio prossimo libro. Ovviamente era una grossa bugia. Prima di arrivare in aeroporto, e trovarmi di fronte al tabellone delle partenze, non avevo nemmeno idea della direzione che avrei preso. In realtà, stavo fuggendo da casa e dalle pressioni di chi riponeva in me troppe aspettative.
Anche se la mia non era proprio del tutto una bugia, perché in effetti stavo cercando davvero qualcosa. Anzi, qualcuno. Stavo cercando un altro Bill.
Un altro modello unico, che avesse da raccontarmi una storia che sarei forse riuscito a mettere in un libro, lasciando quanto più possibile inalterata la freschezza della voce originale. Era il solo modo, mi dicevo, in cui avrei potuto tentare di replicare qualcosa di simile all’autobiografia del nonno.
Al tempo stesso, qualcosa di diverso e di univoco, in cui il mio contributo fosse più consistente, e più personale, di una revisione di bozze.

E scrissi davvero tanto, in quegli anni on the road. Un’infinità di articoli, pezzi di colore, interviste, reportage. Mi feci un nome come giornalista free lance, acquisii diversi contatti, e alcuni di essi, in un futuro che allora non potevo immaginare, mi sarebbero tornati molto utili.
Quasi tutti i pezzi che inviai al mio agente, dai luoghi in cui di volta in volta mi trovavo, vennero pubblicati da quotidiani, riviste, periodici. In un certo senso, lo costrinsi a cambiare lavoro, o quanto meno ad allargare i propri orizzonti professionali; perché lui trattava con case editrici di narrativa e saggistica, e dovette imparare a muoversi nel mondo del giornalismo, per piazzare i miei lavori e guadagnarvi la propria percentuale. Lavori che però, nonostante piacessero a pubblico e redattori, mi venivano pagati assai poco. Dunque anche lui non è che ci ricavasse granché. Dopo un paio d’anni si stufò, e mi lasciò al mio destino. Ma quel punto, ormai, non avevo più bisogno di un agente; come dicevo, mi ero fatto un nome nel giro e avevo trovato i miei canali. Continuai però a guadagnare molto poco, pur scrivendo tantissimo.
Il che dipendeva da due fattori. Il primo, che a parte alcune grandi firme storiche i giornalisti di tutto il mondo ormai tiravano a campare; il settore era pieno di pennivendoli, e qualcuno più a buon mercato di te, a cui affidare un articolo o due in cambio di un tozzo di pane, come se gli si facesse un favore, lo si trovava sempre.

Il secondo, che io scrivevo ciò che mi pareva, quando mi pareva, se mi pareva. Così come non ero soggetto ad alcuna linea editoriale, io per primo non mi davo nessuna direzione prestabilita. Scrivevo allo stesso modo col quale mi spostavo da un luogo all’altro: a sensazione. Per me quello era solo un buon esercizio, un modo per tenere mente e stile allenati, mentre proseguivo la ricerca del mio Bill. Che non incontrai mai. Ho conosciuto persone straordinarie e altre orribili, molte uniche seppur normali e in qualche caso addirittura invisibili, nonostante brillassero di luce propria.
Ma non ho mai avvertito di trovarmi di fronte a qualcuno che potesse darmi ciò che io stavo cercando. Nemmeno una volta.

O forse una sì. Quasi. Non in quel viaggio, ma alcuni anni dopo, nel nord Italia. Durante una bufera di neve trovai riparo in un locale di un paesino lungo la strada, e lì conobbi un possibile Bill. Tant’è vero che iniziai a chiamarlo così, nei giorni seguenti, in cui cause di forza maggiore mi videro bloccato in quei paraggi, e avemmo occasione di passare molto tempo insieme. Quel soprannome gli piacque, e da allora, parlando con me o scrivendomi, prese a dichiararsi come Bill. Gli piacque, mi disse, perché gli ricordava It e Bill Denbrough e gli altri sei ragazzi del Club dei Perdenti.
Il primo libro di Stephen King che avesse letto, amandolo follemente; e il suo racconto di quell’esperienza, credetemi, è qualcosa di mistico.
Un giorno, in un bar di Bangor, nel Maine, vicino a casa di Steve e non molto lontano dai luoghi in cui ero cresciuto, e nei quali ho insegnato per diversi anni, mi capitò di bere qualche bicchierino col Re in persona, e gli raccontai del mio amico Bill. Di come si fosse divertito ad accettare quel nome come nick, in onore non del “mio” Bill, ma del suo, cioè del protagonista di It.
Lui non disse nulla, si limitò a un lieve sorriso. Ma aveva un non so che nello sguardo. Forse era solo l’alcol, ne avevamo già mandati giù parecchi. Ma forse era qualcos’altro. Mi piace credere che uno dei più grandi narratori viventi si fosse emozionato, al mio racconto, per quel piccolo tributo a una propria creatura, che gli giungeva da un paese lontano.
Ma torniamo a noi.

(continua qui)